San Pietro in Vincoli. O la statua con la chiesa intorno
San Pietro in Vincoli: è una basilica antichissima e importante, custode delle catene con cui si dice sia stato imprigionato San Pietro. Però diciamocelo, se non contenesse quel capolavoro dell’arte al suo interno, la Basilica di San Pietro in Vincoli che vediamo oggi sarebbe una chiesa come le altre, annoverabile fra le tante millenarie basiliche maltrattate dal neoclassicismo che imperversò a Roma nel settecento.
È alla presenza di una guest star che dobbiamo invece il flusso ininterrotto di visitatori provenienti da tutto il mondo: la famosissima statua del Mosè, che Michelangelo Buonarroti scolpì per celebrare la memoria di papa Giulio II Della Rovere.
Una telenovela di mausoleo
La storia del mausoleo di Giulio II è avvincente almeno quanto un paio di stagioni di Desperate Housewives. Siccome lo spazio è tanto ma la vostra attenzione sul web dura meno di un ciclista sulla Colombo, proverò a riassumerla. Giulio II, pontefice gagliardo e tosto, commissiona il suo mausoleo a Michelangelo, scultore gagliardo e tosto. Corre l’anno 1505. L’artista gli propone una sorta di villetta a schiera in marmo da collocare in Vaticano, dentro San Pietro, caratterizzata da una superficie di oltre 70 metri quadrati, un’altezza di 8 metri e adornata da oltre 40 statue. Il progetto piace al Papa (guarda un po’…), che però dopo qualche mese si stufa e si disinteressa.
Da qui in poi inizia una sequela infinita di interruzioni e riprese lunga quarant’anni, sei progetti riduttivi e quattro papi. E molte accuse nei confronti di Michelangelo, perché se io ho pagato per un palazzo nobile in via del Corso e tu dopo quarant’anni mi consegni un monolocale a Torpignattara, un poco mi scoccio. E invece la storia finisce proprio così: con un mausoleo ridotto ad una sola facciata, 40 statue diventate 6, una collocazione nella chiesa di San Pietro sbagliata e un Michelangelo che non esita a definire l’opera come la tragedia della sua vita.
Il Mosè sconsolato
Bisogna tuttavia dare ragione al Cardinal Gonzaga, che nel 1535 vedendo il Mosè – opera principale della tomba – tagliò corto sui dubbi di Michelangelo, affermando che la sola statua era più che sufficiente a celebrare la gloria di Giulio II. Lui non lo sapeva, ma in quel momento era fra i primi ammiratori di una pietra miliare nella scultura di ogni tempo.
Seduto e possente, al contempo dinamico ed espressivo, il Mosè trattiene con la mano quella barba tanto perfetta da sembrare “opera di pennello più che di scalpello”, come ebbe a descriverla il Vasari. Un Mosè rappresentato con un’espressione fra il severo e lo sconsolato, colto nel momento in cui si accorge di non poter lasciare un attimo da solo il popolo eletto, che quello prende e si elegge un altro idolo. La frustrazione del soggetto incarnazione della frustrazione dell’artista.